Guerra Bianca sul Adamello - carè alto e corno di caventoL’Adamello, dove combatterono i nostri soldati - La scalata alla vetta che ancora ospita reperti bellici oggi è costellata di bivacchi e ripari. Di escursionisti se ne vedono sempre meno: e molti si fermano prima di arrivare in cima.

Ci sono storia, memoria e avventura negli antichi sentieri di queste montagne a cavallo tra Lombardia e Trentino. Sino a un paio di decenni fa erano meta preferita di escursionisti e alpinisti. Ma ora in larga parte dimenticati, trascurati, frequentati per lo più da pochi locali. «Magari l'avvicinarsi del centenario della Prima Guerra Mondiale rilancerà la visita alle nostre cime», augurano i rifugisti, che in pieno ferragosto si ritrovano con le stanze semi-vuote. Vette a solo due ore d’auto da Milano, eppure selvagge, solitarie, fatte di granito magnifico, granuloso, solido, e ampi ghiacciai a quote relativamente basse: vicine e lontane allo stesso tempo.

Gli itinerari possibili sono infiniti, corredati da una fitta rete di rifugi ben serviti e bivacchi non custoditi fatti in modo tradizionale, in legno e lamiera a forma di semibotte con sei o nove cuccette. Quello che proponiamo parte dalla Vai di Genova, lungo il sentiero attrezzato detto del “Matamt”, oltre le cascate del Nardis, alle porte di Pinzolo, e sale subito ripido verso i 3.040 metri del rifugio Lobbia Alta dedicato ai Caduti dell’Adamello. Un nome caro ai cultori del conflitto che segnò indelebilmente le sorti del “secolo breve". Qui era la base delle truppe italiane che presidiavano l'intera cresta tra la Valle Adamè e la Val di Fumo. Proprio di fronte, a una distanza media compresa tra i due e quattro chilometri in linea d'aria, stavano i contingenti austriaci, attestati sull'infilata di creste che toccavano il Carè Alto, passavano per il Corno di Cavento, il Crozzon di Lares e proseguivano per passi e vedrette fortificate con gallerie scavate nel ghiaccio, fili spinati, vie attrezzate sulla roccia a picco sulle distese innevate. Dal 1915 al 1918 fu uno dei teatri più cruenti e difficili della "Guerra Bianca", fatta di colpi di mano, attacchi e ritirate, posizioni conquistate e perdute, teleferiche ardite. Soldati che si inventavano sci-alpinisti agli albori degli sport invernali e truppe scelte spinte a scalare pareti inviolate con gli scarponi chiodati, corde di canapa che si irrigidivano col freddo, moschetto, munizioni e bombe a mano sulle spalle. Una sfida prima con la natura che non tra eserciti.

Alla fine circa due terzi dei morti furono per le valanghe, le cadute nei crepacci, le frane, le malattie, il freddo. Migliaia di uomini furono costretti a vivere ciò che solo poco prima era impensabile. Cadde il tabù dell'alta montagna inaccessibile d'inverno. Si produssero cartine, costruirono sentieri, rifugi, migliorò la medicina per combattere i congelamenti, si studiò l’a1imentazione per gli sforzi in quota. Camminare sull'Adarnello significa anche visitare, conoscere, toccare con mano uno dei luoghi più caratteristici e tragici della formazione dell'alpinismo modemo.

Con lo zaino pieno. Non è elementare la salita alla Lobbia. A metà strada una serie di corde fisse e gradini in ferro aiuta a superare un'ampia fascia di placche rocciose. Nello zaino occorre portare corda, ramponi e picca. indispensabili una buona mappa, senso dell'orientamento e conoscenza tecnica. ll rifugio è accogliente, ristrutturato di recente ha i bagni con 1’acqua calda e dispone di un centinaio di posti per dormire. «Il 90 per cento dei nostri clienti mira in genere ai 3.539 metri della cima dellAdamello, che tra andata e ritorno prende almeno cinque o sei ore. Ma ora, con l'avvicinarsi del centenario della guerra, tanti vanno anche a visitare il celebre cannone italiano delle Lobbie, due ore e mezzo di marcia solo di andata», dice Romano Ceschini, il gestore 55enne, che lavorava qui col padre quando era ragazzino alla fine degli Anni Sessanta. Il ghiacciaio è invece semplice, poco crepacciato. Per chi avesse però poca dimestichezza con la corda, meglio prendere una guida. La nostra seconda tappa comporta il raggiungimento del passo Brizio in meno di tre ore, per lo più su di un grande pianoro del ghiacciaio, quindi la discesa su breve via ferrata verso la Valle dell'Avio, per toccare infine il rifugio Garibaldi, dove era situato il comando regionale italiano. Per chi non gradisse la tappa “glaciale" è consigliato invece salire direttamente in un paio d'ore da Temù lungo i bacini idrici dell'Enel.

Il paesaggio cambia radicalmente. Al posto delle enormi distese ghiacciate, si attraversa una selva intricata di blocchi di granito e antiche morene delimitati a sud-ovest dai vertiginosi contrafforti dell'Adamello con i piccoli nevai pensili abbarbicati tra il nero della roccia che appaiono sempre più in ritirata.

Abbiamo raggiunto il percorso tradizionale del “numero uno", l'alta via istituita nel 1985, che in circa una settimana e più di trekking da rifugio a rifugio permette di visitare le regioni occidentali del gruppo. Necessitano circa cinque ore di buon cammino per raggiungere il Tonolini (uno dei più antichi rifugi lombardi) attraverso i 2.847 metri del passo di Permassone, dove gli ultimi 100 metri di roccia ripida si salgono con l'aiuto di cavi e pioli. Sulle pareti del rifugio un manifesto ricorda le magie dei nuovi skyrunner, che letteralmente volano con scarpette e tute super leggere dove i comuni mortali arrancano per giorni e giorni sotto il peso dello zaino. Vi è descritto l'exploit di Dino Melzani, un quarantenne dipendente dell'Enel capace nel luglio 2009 di bruciare ogni record percorrendo in sei ore e 58 minuti i 48 chilometri e complessivi oltre 4.000 metri di dislivello della parte centrale del trekking. Dal Tonolini le vallate sono una più bella dell'altra, tutte disegnate a "u", la classica impronta lasciata dal lavorio millenario dei ghiacciai ora in ritirata, levigate sui fianchi, ampie sul fondo segnato dall'immancabile fiume impetuoso che attraversa prati verdissimi.

Necessitano altre sette-otto ore per arrivare al rifugio Prudenzini cavalcando quota 2.818 metri di passo Miller. Il sentiero è sempre ben segnato con ometti, affiancati dagli onnipresenti bolli verniciati in bianco e rosso sulle rocce. Impossibile perderlo anche con la nebbia, non rara. Però l'incedere è lento, reso difficile dalla presenza di interminabili "gandoni", il groviglio di massi sovrapposti che costringono alla concentrazione continua per mantenersi in equilibrio. Vien da chiedersi come facessero i soldati cento anni fa a passare da qui trainando pezzi di cannone, legna, cibo, munizioni, paglierlcci e coperte. I tracciati sono sicuri, ma sempre ripidi, necessitano di buone gambe e soprattutto ottime articolazioni, le ginocchia in particolare sono continuamente sotto sforzo.

Trincee commemorative. Dalla Valle Salarno in mezza giornata si arriva a quella di Adamè, ben servita da due rifugi, Baita Adamè e Città di Lissone. La memoria della guerra torna quindi prepotente con la galoppata al Forcel Rosso, dove una targa in marmo bianca con i simboli ancora ben leggibili del Quinto Reggimento Alpini della Terza Compagnia Presidiaria, anno 1916, è affissa ai muretti di pietre a secco delimitanti le vecchie trincee ancora perfettamente conservate. Giù in fondo, settecento metri più in basso, c'è il rifugio di Val di Fumo.

L'edificio è ampio, caldo, in una bacheca sono raccolti gli immancabili cimeli della guerra: qualche elmetto, fucili modello novantuno, baionette, caricatori, divise in panno grigio, cinturoni, schegge di granate, bombe inesplose e svuotate della polvere da sparo. «Uccidono ancora», mettono in guardia i cartelli apposti un po' ovunque dalla Provincia, anche per ricordare al pubblico che è vietato portarsi a casa i cimeli. Dal 1970 il rifugio è in mano alla famiglia Mosca, originaria della Val Rendena. Gianni, il gestore, è praticamente nato qui quarant'anni fa. Gli affari vanno bene grazie al ristotante. Salendo dalla carrozzabile in Val di Daone ci si arriva in un'ora e mezzo. «Tanti fanno la passeggiata con la famiglia, pranzano e scendono. Quasi nessuno sale più al ghiacciaio e tanto meno a1l’Adamello come nel passato. Una volta il rifugio era una base di partenza, adesso di arrivo», lamenta. La notte solo cinque o sei letti dei cinquanta complessivi sono occupati. In cielo non c'è una nuvola. «In altri tempi di questo periodo avremmo registrato il tutto esaurito». I1 trekking torna a puntare verso le cime: cinque ore per giungere ai 2.586 metri del rifugio Carè Alto. Era il comando austriaco per il settore sud—orientale. Una chiesetta di legno a pochi metri dal rifugio costruita dai prigionieri russi in perfetto stile ortodosso è stata di recente restaurata.

Da qui, ancora per chi conosce le tecniche di ghiacciaio, è da pochi anni accessibile la grotta scavata dagli austriaci appena sotto i 3.406 della cima del Corno di Cavento. Il pavimento è ricoperto da uno spesso strato di ghiaccio, ma letti, pagliericci, lampade a petrolio e bombe a mano appese ai muri sono là dove furono abbandonati nel 1918. Gli italiani la conquistarono e persero due volte a costo di enormi sacrifici. Una testimonianza drammaticamente reale delle condizioni di vita dei soldati allora. Ci si arriva in tre o quattro ore di marcia, ma occorre che da valle le guide facciano pervenire la chiave della porta di accesso. L'ultimo giorno il ritorno verso la Val Genova è una lunga corsa di mezza costa che progressivamente lascia le morene per scendere verso le pinete.

Lorenzo Cremonesi - SETTE

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