Stamane mi sono svegliato molto presto, anzi potrei dire di non avere chiuso occhio tutta la notte: mi ha tormentato il pensiero che poco dopo l’alba sarei partito per raggiungere finalmente l’Isonzo; avrei lasciato in camera la stampella che ha aiutato il mio femore a guarire dopo la fucilata subita e avrei raggiunto, camminando senza difficoltà, l’automobile con la quale assieme a un collega milanese avrei seguito la colonna reale al fronte.

Così è stato. Strada facendo, il collega mi ha ragguagliato sugli ultimi eventi e ho capito che la strategia adottata finora non può dirsi frutto di un genio. Abbassando la voce per non farsi sentire dall’autista, il collega mi ha detto che gli austriaci chiamano Luigi Cadorna «il prudentissimo condottiero» per la esagerata lentezza con cui ha diretto finora le operazioni; alla fine, però, abbiamo avuto la meglio grazie al fatto di avere limitato l’avanzata delle truppe italiane nei primi giorni del conflitto. Mi sono ben guardato dall’esprimere opinioni, perché voglio sperare che si sia trattato di assestamenti in attesa di conoscere la reale potenza del nemico.

Siamo entrati nel cuore dell’estate. Il sole sembra alzarsi dalle spalle di Trieste e si espande sempre più luminoso sulla pianura, accarezzando le cime carsiche e le coste montuose illuminate dalle acque tremule dell’Adriatico. Le vere operazioni offensive sono incominciate verso la metà di giugno fra Plava e Mainizza e fra Sagrado e Monfalcone, ma la battaglia più cruenta è avvenuta sul monte Nero, dove in otto giorni – dal 27 maggio al 4 giugno – abbiamo perduto 2.500 uomini; tuttavia abbiamo avuto la meglio grazie all’eccezionale valore dell’8º reggimento alpini del battaglione Cividale, costituito dai giovani della Val Natisone. Qui si è attuata una tattica diversa dalle precedenti: il battaglione è stato inviato contro le munitissime posizioni nemiche del Rudice-Rob, a destra del monte Nero; le truppe si sono insinuate tra i massi e i dirupi raggiungendo di soppiatto l’inizio della salita; valutata la forza nemica, l’avanguardia l’annullava facendola retrocedere e consentendo così l’avanzata dell’intero battaglione.

Gli italiani hanno passato l’Isonzo a Plava e sono riusciti ad attestarsi sulla riva sinistra anche in questa zona, mentre più a nord, nella conca di Plezzo, sono arrivati alle pendici del monte Rambon e dello Javorcek. La guerra ha dunque toccato dal primo momento i paesi dell’immediata frontiera politica; sul Collio le truppe italiane hanno occupato dal primo giorno San Floriano, aiutati, in questo caso, dalla fortuna: una pattuglia dei nostri partita da Dolegna è giunta alle 10.30 in paese ed è stata avvistata da alcuni ragazzi che giocavano nella piazzetta; temendo si trattasse di una pattuglia in avanzata, si sono precipitati nella vicina osteria per dare l’allarme; vi hanno trovato quattro gendarmi austriaci che giocavano a carte, il quali, appresa la notizia, hanno abbandonato sul tavolo le carte e i bicchieri di vino per darsi in gran fretta alla fuga. Alcuni giorni dopo sul paese sono piombat. e quattro bombe di mortaio che hanno provocato quattro vittime e gravi danni; per evitare altri disastri, sono state sgomberate San Floriano, San Martino, Dolegna, San Giovanni al Natisone.

Sicuro che non avremmo avuto difficoltà a raggiungere in qualche zona di combattimento il corteo con l’auto con il re, ho convinto il mio collega – che durante il viaggio mi ha raccontato tanti episodi di cui è stato testimone – a compiere qualche variante del percorso, per cogliere direttamente qualche episodio a testimonianza della drammaticità del momento.

Siamo arrivati a Lucinico, un paese sulla riva destra dell’Isonzo difronte a Gorizia; è quasi mezzogiorno, ma è inutile avere fame: la gente è in fermento, i pochi negozi sono chiusi, le vivande scarseggiano e chi ne ha le nasconde perché l’avvenire è un’incognita; i paesani non sanno cosa potrà accadere: Lucinico sarà definitivamente austriaca, come ora, o italiana come vogliono i suoi abitanti? L’attenzione di tutti è rivolta al Podgora, dove di continuo stanno affluendo truppe. Sono riuscito a scambiare quattro parole con il podestà Andrea Perco, ma neppure lui è in grado di tranquillizzare i compaesani; l’unica misura di protezione diramata è un invito a rifugiarsi in caso di bombardamento nell’ampia cantina sotterranea dell’Albergo consorziale friulano. Il frastuono delle bombe si è già fatto sentire. Il Comando austriaco di Lucinico ha fatto piazzare nel centro due mortai, ha bloccato alcune strade e rafforzato il pattugliamento: è segno che il nemico non intende abbandonare la posizione ed è pronto a rintuzzare adeguatamente ogni mossa italiana. Uno scambio di cannonate, infatti, è avvenuto quando i nostri hanno cercato di sorprendere i nemici, ma questi hanno prontamente aperto il fuoco, portandone le conseguenze fino a il risultato, gli austriaci hanno concentrato a lungo il fuoco sul paese rendendolo un cumulo di macerie.

Con questa immagine negli occhi mi sono mosso in direzione di Gradisca, dove la situazione è molto confusa. In quella zona operano la Terza e la Seconda Armata che devono fronteggiare il nemico appostato sul San Michele: da lassù le bombe arrivano a pioggia. La popolazione terrorizzata se ne è andata, parte in paesi diventati italiani, parte in territori ancora austriaci. Prima della grande fuga, erano rimasti a Gradisca solamente il custode delle carceri e sua moglie, poi morti di colera; fra le proprietà abbandonate, un maiale, che il commissario Giacomo di Prampero ha fatto vendere a Romans, un’armenta data in dotazione al reparto dei carabinieri e una gatta che scherzosamente si dice abbia conquistato un posto nella storia grazie al duca d’Aosta. La gattina era stata raccolta da un giovane ufficiale che l’aveva sentita miagolare tra le macerie a Gradisca e l’aveva potata con sé a Palmanova, dove nell’albergo Rosa d’oro ogni tanto gli ufficiali si incontravano con il comandante della Terza Armata; nella pausa delle relazioni, il giovane ufficiale ha raccontato la breve vicenda della gattina e il duca, incuriosito, ha voluto vederla; quando un inserviente l’ha adagiata sul tavolino, il duca ha stappato una bottiglia di spumante e ne ha sparse alcune gocce sulla testa della gattina; «ci porterà fortuna – ha soggiunto tra gli applausi – e la chiameremo Gradisca».

Le truppe del duca d’Aosta sono dislocate con due divisioni sulla sinistra dell’Isonzo, ai piedi del Carso. La conquista di Monfalcone ha richiesto uno sforzo eccezionale. La città era stata bombardata alla fine di maggio dagli aerei italiani che avevano fortemente danneggiato la stazione ferroviaria e la centrale elettrica; nei giorni successivi, gli italiani hanno ripetuto i bombardamenti aerei e i cannoneggiamenti dal mare per colpire le strutture portuali; non sono mancate le reazioni e per alcuni giorni la città sembrava popolata di fantasmi. All’alba del 9 giugno anche Monfalcone era liberata.

Mi sono ripromesso di compiere nei prossimi giorni qualche sopralluogo tra quelli che penso siano da considerare due linee naturali di combattimento: l’Isonzo e il Natisone. Vedremo se le loro acque saranno ancora limpidamente azzurre, senza segni di rosso.

Sergio Gervasutti
per messaggeroveneto.gelocal.it

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