Cent'anni fa finì l'Europa. Dico l'Europa come centro del mondo e faro della civiltà universale. Il 1914 è una data memorabile e funesta per l'Europa. Spengler fu impreciso quando descrisse il Tramonto dell'Occidente: con la Grande Guerra tramontò l'Europa, non l'Occidente che anzi con gli Stati Uniti divenne per tutto il Novecento il fulcro del mondo.

E a tutt'oggi la ripresa americana, la vitalità del Sudamerica, la crescita del Brasile, il papato argentino, sono segni di un Occidente che non tramonta. Fu l'Europa invece a tramontare, e morire a causa dei suoi stessi figli, storici e ideologici, tecnologici, economici e militari.

Il 1914 fu lo spartiacque tra il mondo di ieri con l'Europa sul trono e il mondo delle masse dominate dalle ideologie e dai sistemi totalitari, e poi dai consumi e dai sistemi tecno-finanziari. La Prima guerra mondiale che scoppiò nell'estate del 1914 può essere considerata gloriosa alla luce di alcune singole nazioni e del loro irredentismo che, come per l'Italia, portava a compimento il Risorgimento; ma fu davvero funesta per i destini della civiltà. Dalla prima guerra mondiale nacque infatti il comunismo e poi il nazismo, mentre da noi era nato il fascismo. Con la Prima guerra mondiale cominciò il tramonto delle potenze europee, comprese le vincitrici in ambedue i conflitti mondiali.

E divampò quella guerra civile europea, come la chiamò Nolte, che dilaniò l'Europa e finì il 1945. Gli ultimi giorni dell'umanità non riguardarono solo la finis Austriae, come pensò Karl Kraus, ma coincisero con la fine dell'homo europeus, che venne colonizzato. Dopo di lui, vi sarà il proletario comunista e l'homo sovieticus, la folla nazionalista e l'homo ideologicus, la massa consumista e l'homo americanus, più il risveglio asiatico. Tutto quel che ha affossato l'Europa è nato da una costola dell'Europa medesima: l'America come il comunismo, il nazismo come la bomba atomica, il capitalismo come la tecnica e la finanza. «La luce si sta spegnendo in tutta Europa e non la vedremo più riaccendersi nel corso della nostra vita» scriveva allora sir Edwuard Grey e lo diceva da segretario di stato britannico. Lo cita Margaret MacMillan, autrice di 1914, da poco tradotto in Italia da Rizzoli (pagg.784, euro 28) che narra la catastrofe europea. La dolcezza di vivere del Mondo di ieri, su cui aveva scritto Stefan Zweig, e che qui riecheggia, è in realtà la stessa nostalgia che nutriva Talleyrand per l'epoca precedente al 1789: «chi non ha vissuto negli anni prima della rivoluzione non può capire cosa sia la dolcezza del vivere». Rimpianti e catastrofi sono ciclici della storia. Segnano la fine di un mondo, non del mondo.

L'Europa si è unita quando aveva già cessato di essere vivente, si era spento da tempo il fuoco vivo che l'animava; si è unito il suo corpo esanime, come si ricompone un cadavere nell'obitorio dell'economia, tramite lo stoccaggio delle nazioni e lo scambio tra civiltà e contabilità. C'era molta più Europa quando le nazioni europee si avversavano che adesso; c'era più scambio tra le culture e le letterature nazionali al tempo dei nazionalismi e perfino sulle trincee della grande guerra che in seguito, dopo la pax mondiale e l'unione europea. Hanno fatto di più per l'Europa l'Erasmus, l'emigrazione interna e i voli Ryan air che l'euro-Parlamento, la Commissione e la Banca centrale europea. E fanno di più per la coscienza europea la minaccia islamica, il pericolo cinese e la concorrenza asiatica che i trattati di Scenghen, Maastricht e Bruxelles.

È giusto che si commemori in grande stile quel centenario e si ricordi in tutta Europa la deflagrazione della Prima guerra mondiale nel 1914. Ma commemorare non vuol dire, soprattutto in questo caso, celebrare o addirittura festeggiare: l'Europa ha ben poco da festeggiare del suo declino. Si ridusse a salotto nobile ma sempre meno centrale del pianeta, poi perse le colonie e gli imperi come i capelli e il vigore della gioventù, diventò periferia nell'era del bipolarismo mondiale tra Usa e Urss, fu nuovamente scomposta nei nuovi gruppi fondati sulla potenza industriale ed economica, come i G8, poi fu assorbita nel conflitto tra Occidente e Islam e infine schiacciata nella nuova geografia planetaria tra Nord e Sud del mondo. Sopravvive come continente e come entità burocratico-monetaria, come reperto storico, ma quel che ne faceva il faro del mondo si è spostato altrove o si è spalmato nel mondo.

A scuola, il 1914 segnava l'entrata della storia nel presente. Si datava così l'inizio dell'età contemporanea e si dichiarava definitivamente defunto il Passato a partire dal 1914. Quella data accorciava il secolo vivente perché nei libri di testo, prima ancora che con Eric Hobsbawm, il 1914 inaugurava il Secolo Breve, che cominciava quattordici anni dopo la sua nascita anagrafica, lasciando che l'Ottocento si allungasse fino alle porte della Grande Guerra.
Nella mia storia personale il 1914 era legato a tre cose: era l'anno che saltava agli occhi da bambino quando bevevo alle fontane perché quella data era incisa sul ferro di tutte le pompe d'acqua della sitibonda Puglia, a suggellare l'Acquedotto voluto da Matteo Renato Imbriani che segnava l'entrata della Puglia nella modernità liquida. Il 1914 era poi l'anno in cui era nato mio padre, e questa sua data mi confermava da bambino che i contemporanei partivano da lui, e il passato intero, l'età dei nonni e degli avi, si confondeva con l'antichità. Infine, quando avevo sedici anni, il 1914 fu l'anno in cui era nato Giorgio Almirante, il mito vivente della mia prima gioventù.

In tutti i casi, scolastici e personali, idrici e affettivi, il 1914 coincideva con l'Inizio. Solo con la maturità compresi che dietro quell'Inizio si nascondeva in realtà una ben più grande fine. E non era semplicemente la fine degli imperi centrali, come insegnavano a scuola, ma la fine di qualcosa di più importante, che non riguardava solo l'Austria e l'Ungheria, la Prussia e la Russia. Ma era la fine di quella civiltà per secoli chiamata Europa, troppo grande per l'era dei nazionalismi e troppo piccola per l'era degli internazionalismi, troppo amalgamata per dividersi in razzismi e troppo differenziata per uniformarsi nella globalizzazione. Fuori da ogni grottesco revanscismo, è bello coltivare la nostalgia dell'Europa nel centenario della sua scomparsa. Magari confidando che la storia non sia solo una folle corsa di sola andata.

Marcello Veneziani
per ilgiornale.it

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