Il figlio di Rigoni Stern che fa rivivere i pascoliTra le vedove dei contadini nei luoghi del genocidio. Parlando in dialetto veneto.

Dall'altopiano di Asiago a quello di Srebrenica con mucche e aratri.

Come fosse ieri. «Per questa gente non è cambiato nulla. Ha la guerra dentro, nell'anima». Gianni Rigoni Stern parte di nuovo. Lunedì sarà ancora una volta su quell'altipiano così simile a quello dove vive. A guardare il tachimetro, siamo così vicini. Noi, e loro.

Dalla sua casa di Asiago, Italia, al centro di Srebrenica, Bosnia orientale, la città del più grande genocidio avvenuto in Europa dopo la fine della Seconda guerra mondiale, sono otto ore di viaggio in auto. Porterà con sé nuovi doni, non proprio quelli tipici di un Babbo Natale, soprannome che gli hanno dato i bambini bosniaci per via della barba folta e dello sguardo buono: un voltafieno, un aratro, uno spandiletame.

E anche questa volta non riuscirà a farci l'abitudine, guardare la natura e vederci il male degli uomini. Il paesaggio intorno a Srebrenica è fatto di campi abbandonati e malati, boschi che avanzano tra case e stalle bruciate dalle milizie serbe. «La guerra è finita, ma per chi resta c'è ancora, è nella memoria e nelle cose». Quest'estate lo hanno invitato a mangiare la pecora arrosto in una malga. All'ingresso c'erano due kalashnikov. Per tenere lontani orsi e lupi, gli hanno spiegato. La casa era piena di armi. Dopo pranzo, c'è stata una gara di tiro. Gianni ha vinto con facilità, è un cacciatore esperto. Si è subito accorto che gli ospiti lo guardavano in modo diverso. «La loro ammirazione era figlia del bisogno di essere protetti, di quel che hanno vissuto. Anche queste sono le conseguenze della guerra: un uomo non si giudica da come spara».

«Ieri», il passato recente, lo racconta così. Con l'abbandono dei luoghi, il disastro ambientale. Il suo pudore di montanaro gli impedisce di affidarsi ai racconti delle persone che ha conosciuto in questi quattro anni, gli stupri, i figli ammazzati come cani davanti alle madri. Quelle sono confidenze che i salvati gli hanno fatto perché si fidavano, tragici racconti intimi. Nella primavera del 2008 l'autrice teatrale Roberta Biagiarelli andò a casa di Mario Rigoni Stern, il grande scrittore, l'uomo che ci ha raccontato la tragedia della ritirata di Russia e l'amore per la montagna, l'altopiano di Asiago come simbolo di purezza e della vita buona. Voleva coinvolgerlo nel progetto per il recupero del teatro di Srebrenica. «Papà stava già molto male, era vicino alla fine. In quel periodo vivevo con lui per assisterlo».

Perché non vieni tu, fu chiesto a Gianni, forestale in pensione. In fondo è una terra che somiglia alla vostra: perché non vai a insegnare alle vedove come si potano le piante? Nell'agosto del 2009 partì per la prima volta. L'altopiano era davvero simile a quello di Asiago. «È stato come sentirmi a casa». Ma con la stessa miseria che aveva lasciato nelle sue montagne la Prima guerra mondiale. La pulizia etnica aveva lasciato solo povertà, rovine e abbandono.

L'idea di portare manze e manzette a Suceska, un borgo di Srebrenica, nacque così. Gli animali, il primo passo per recuperare un territorio devastato. «Ma soprattutto per sconfiggere la fame». All'inizio fu difficile. «Laggiù lo Stato non c'è ancora, impossibile capire a chi rivolgersi». Tentò con la cooperazione italiana, ma gli uffici di Sarajevo chiusero nel nome dei tagli imposti dalla Finanziaria. Arrivarono in soccorso i vicini di casa, il confine con il Trentino dista pochi chilometri dalla sua Asiago. La provincia autonoma approvò il progetto e nel gennaio 2011 trovò i fondi per l'acquisto di 48 vacche Rendene, razza autoctona della valle omonima. Decisero di donarle alle famiglie con vedove e orfani, e c'era l'imbarazzo della scelta.

Gianni parla in dialetto veneto agli abitanti di Srebrenica. Se non tenete bene gli animali, io vi carico di botte, era la frase che affidava al traduttore. Adesso non ne ha più bisogno. Temeva che le famiglie vendessero gli animali. Quest'inverno ha capito di aver lavorato bene. «Ci sono ancora, accudite e tenute come meglio non si potrebbe. Siamo sulla strada giusta». Ogni mese va in Bosnia, a tenere lezioni sull'allevamento, a insegnare come si fa. Laggiù non c'è più nessuno che possa farlo, la guerra ha cancellato una intera generazione.

Non ama raccontarsi, il figlio di Rigoni Stern. «In tre parole: laureato in Scienze forestali, insegnante per pochi anni, poi responsabile degli alpeggi dell'altopiano. Una moglie, due figli. Un uomo come tanti». La Bosnia ha cambiato la sua vita. Credeva di godersi la pensione, di fare viaggi con la jeep acquistata con la liquidazione. Invece. «Nulla avviene per caso. Papà mi ha parlato tante volte dell'inutilità della guerra, ma solo adesso capisco cosa ha vissuto. Bisogna osservare le sue conseguenze sulla terra e dentro gli uomini. Solo oggi ne capisco davvero la bestialità, e mi sento ancora più vicino a Mario».

Questa piccola cosa delle vacche Rendene, come la chiama Gianni, è diventata sempre più importante, per lui e per loro. Ne sono state acquistate altre, ormai siamo a più di cento. I campi sono tornati ad essere coltivati, non più lande desolate. Sono rinate alcune fattorie, il sogno è quello di aprire un caseificio, che potrebbe portare il nome di Mario, il sergente nella neve. «Non mi illudo di cambiare le cose, so bene che la situazione di questa gente è difficile. Hanno ferite che ancora devono chiudersi. Cerco di migliorare la loro vita, perché loro hanno fatto di me una persona migliore». Perché l'uomo si porta dentro la guerra, ma c'è un altopiano dentro ognuno di noi.

Marco Imarisio - Corriere della Sera

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